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“Ascolta il tuo corpo”.. “In che senso..?”

Riflessioni trauma-informed sulla capacità di contattare le informazioni corporee


“Ascolta il tuo corpo”. Gli insegnanti di yoga lo dicono spesso durante le lezioni, per esempio a inizio e fine pratica, oppure dopo una particolare sequenza di posizioni, mudra o pranayama. Il messaggio può essere espresso in vari modi (“osserva cosa succede al tuo corpo”, “porta l’attenzione verso l’interno”, ecc) ma l’obiettivo è lo stesso: portare i praticanti a sintonizzarsi con il proprio corpo.

Ma cos'è che bisogna ascoltare esattamente? E soprattutto, siamo sicuri che tutti gli allievi siano in grado di farlo?


Per allievi traumatizzati, questo non è affatto scontato.

Nel nostro approccio trauma-informed ci interroghiamo continuamente sui vari elementi della lezione che rischiano di essere dati per scontati come, appunto, che un allievo sia effettivamente in grado di sentire cosa accade all'interno del proprio corpo, e distinguere le diverse sensazioni corporee.





Ecco alcuni degli interrogativi che, a nostro parere, gli insegnanti di yoga dovrebbero porsi quando portano un allievo con ferite di natura traumatica ad ascoltare quanto accade dentro di sé:

  1. Cosa bisogna ascoltare esattamente? Siamo sicuri che tutti abbiano in mente parametri corporei da “ascoltare”, come per esempio il respiro o le tensioni muscolari? In realtà, non è detto che un allievo traumatizzato abbia parametri di ascolto del proprio corpo, e che capisca davvero cosa intende l’insegnante quando dice “ascolta il tuo corpo”.

  2. Si sente davvero qualcosa? Nel caso in cui l’allievo traumatizzato conosca alcuni parametri di ascolto, non è scontato che senta qualcosa nel proprio corpo. Ad esempio, potrebbe avere in mente di voler ascoltare la qualità del proprio respiro, ma proprio questa operazione potrebbe attivare una risposta ansiosa e, come diretta conseguenza, una chiusura nell'ottundimento percettivo. È quindi facile trovare allievi in difficoltà che “pensano” a cosa “devono sentire”, ma non sono in grado di sentire realmente.

  3. Quante cose si possono ascoltare? Rimanendo nell'esempio del respiro, non è detto che un allievo, pur percependo il proprio respiro, abbia criteri fini di ascolto, come percepire il suo ritmo, la sua ampiezza, la temperatura dell’aria attraverso le narici, ecc.

  4. Esiste un modo “giusto” di ascoltare il proprio corpo? Non esiste un modo più giusto di un altro, poiché ognuno di noi ha una sua storia somatica che produce esperienze interocettive e propriocettive del tutto personali. Si possono però individuare “stili” diversi di ascolto: ad esempio l’ascolto può essere più puntuale, dove l’attenzione si sofferma di più su un singolo elemento, o sistematica, ossia in grado di esplorare il corpo punto per punto, oppure ancora globale, capace di raccogliere le informazioni percettive nel loro insieme.


Come si può quindi accompagnare gli allievi in un ascolto del corpo che generi comprensione di sé invece di frustrazione e isolamento?

Riteniamo che non basti dire “ascolta il tuo corpo”, ma che sia utile guidare gli allievi nell'ascolto di parametri corporei specifici, ad esempio il respiro, la temperatura corporea, le tensioni muscolari. Anche se l’insegnante è in grado di sentire il proprio corpo, è importante che non dia per scontato che ogni allievo lo sappia fare, e che lo guidi nella costruzione di una mappa personale per orientarsi nel proprio corpo.

Momenti di condivisione nella classe aiutano a sedimentare l’esperienza, ampliare la gamma di parametri che è possibile ascoltare all'interno del proprio corpo, e mostrare come esperienze diverse scaturiscano dalla stessa pratica, tutte ugualmente valide.




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